Pensando a Damasco, e alla cara amica L.

La Cittadella di Damasco, 8 Aprile 2013, Lens Young Dimashqi

La Cittadella di Damasco, 8 Aprile 2013, Credits Lens Young Dimashqi

Ogni tanto Zanzana cita Damasco nei suoi delirii. Aveva anche promesso all’amica Patty di scrivere qualcosa sul tempo trascorso laggiù, ma l’inchiostro si è seccato nella penna. Zanzana non sa se sia a causa del senso di inutilità che pervade le sue parole, visto che in Siria adesso c’è la guerra, o se perché quando era a Damasco, in fondo, Zanzana non era ancora nata. Ogni tanto Zanzana riesce a pubblicare qualche traduzione di argomento siriano, ma poco altro.

La cara amica L. era con lei a Damasco, insieme a tanti altri, e ci è rimasta anche per più tempo. L’amica L. ha trovato le parole per descrivere quello che Zanzana e i tanti cari amici che erano a Damasco sentono quando vedono la loro casa andare in rovina, e ha gentilmente concesso a Zanzana di condividerlo in questo quaderno di follie. Zanzana vi assicura che tutto quello che leggerete corrisponde a come ci sentivamo, alla magia che quella città ci ha lasciato.

La cara amica L. ha poi attivato anche un’importante iniziativa concreta per aiutare i bambini siriani, insieme all’associtazione Time4Life: di questo Zanzana vi parlerà in un prossimo capitolo.

Se poi usate Faccialibro, Zanzana vi consiglia vivamente di seguire questa pagina, dalla quale ha tratto le foto che vedete qui: molte foto vi faranno stare male, tante altre vi daranno un’idea della poesia che si respira in quella città e in quel Paese.

Non ho mai amato nessuna città come ho amato Damasco.
Camminare per le strade di Damasco nelle serate estive, scoprire l’odore dolce dei gelsomini in fiore dietro un angolo, attraversare quel vicolo che ricordava baci rubati, sedere all’ombra della storia con un gruppo di amici, giocando a carte, fumando narghile e bevendo zuhurat (tisane a base di erbe e fiori, molto diffuse in Siria), ascoltare con meraviglia sempre nuova il canto del muezzin alzarsi dai minareti della moschea degli Omayyadi, seguito dai rintocchi di una campana del vicino quartiere cristiano…
Per me la parola Siria sapeva di pane caldo con semi di sesamo appena sfornato, di labne e olive, del profumo delle carni arrostite e di quello del gelato artigianale fatto con crema e pistacchi… era una parola dolce come il suono dell’acqua delle fontane, una parola accogliente come una casa e come il sorriso degli amici ogni volta che tornavi da un viaggio, una parola melodiosa come quelle canzoni che tutti si ritrovavano a cantare seduti al ristorante, agitando al ritmo dell’oud un fazzoletto in mano, una parola potente come i versi delle poesie di Nizar Qabbani… Siria era il luogo in cui ritornare, non quello da cui partire, era il luogo in cui sognavo di vivere insieme ai miei figli, per potergli fare assaporare il gusto di una storia che mescolava l’oriente e l’occidente in un mosaico unico per la sua armonia
Oggi leggo, ascolto e vedo la parola Siria tra macerie, sangue e distruzione… ed è anche una parte di me che va in pezzi, che viene distrutta. Piango per Damasco e per i siriani come mai farei per Perugia e i perugini. E provo una nostalgia tale che mai ho sentito nei confronti della mia città natale durante tutti i miei anni di permanenza all’estero… già …un “estero” che è stato per me casa accogliente e festosa, e che oggi mi manca terribilmente…

L., Perugia, 12 aprile 2013.

Presso la moschea degli Omayyadi, Damasco, 5 aprile 2013, Credits Lens Young Dimashqi

Presso la moschea degli Omayyadi, Damasco, 5 aprile 2013, Credits Lens Young Dimashqi

Zanzana ringrazia con tantissimo affetto la cara amica L.

Il futuro della scuola in Siria

Versione originale: المدرسة السورية…الان

di Hassan Abbas, tradotto da Zanzana Glob
Pubblicato su Al-Mudun, 6 marzo 2013
A due anni dall’inizio della rivoluzione siriana, Zanzana propone una riflessione sulle condizioni attuali della scuola in Siria, pubblicata da Hassan Abbas su Al-Mudun.
Campo profughi di Gaziantep, 26 novembre 2012

Campo profughi di Gaziantep, 26 novembre 2012


“La Scuola è fabbrica di Cittadinanza”: così recita tutta la letteratura su questo concetto, compresa quella che ne critica la versione tradizionale per chiedere il riconoscimento dei diritti culturali di gruppi minoritari nell’ambito dell’unità politica di un determinato Stato. Di certo la scuola siriana non è mai stata un grande esempio di formazione alla cittadinanza negli ultimi anni, per due motivi principali: il primo è il pensiero populista, che vede la scuola come uno strumento strategico per allevare generazioni imbevute di quel pensiero unico, che si è eretto a guida del Paese e della società. Il secondo, che deriva dal primo, è il modello di insegnamento, che non è stato creato in base a criteri che tengano in considerazione l’educazione e la formazione del cittadino, ma che ha invece amplificato le divergenze presenti naturalmente nella società, creando intere generazioni di siriani ignari delle caratteristiche essenziali della loro società. Tra le conseguenze di tutto ciò vi è la creazione di immagini stereotipate dell’altro, ad esso attribuite dall’esterno, incomprensibili all’interessato. Ad esempio, si può dire che i siriani conoscano davvero i curdi che vivono nel loro Paese? I musulmani conoscono davvero i cristiani? Ma anche all’interno dell’Islam, gli esponenti di una certa comunità religiosa conoscono le caratteristiche specifiche delle altre?
La scuola siriana ha lavorato per la cancellazione delle differenze che hanno modellato il Paese storicamente e culturalmente, e, nel momento in cui non ha potuto cancellarle, ha innalzato dei muri. In questo modo ha dato vita a intere generazioni i cui membri non si conoscevano l’un l’altro arrivando a ignorarsi completamente: l’essere umano percepisce però come nemico ciò che ignora. Quest’ignoranza ha costituito terreno fertile per la polarizzazione confessionale, favorita dal regime come uno strumento della sua soluzione militare al conflitto corrente da un lato, dall’altro per il rafforzamento delle componenti della popolazione più svantaggiate dal punto di vista dei diritti.
A livello delle condizioni materiali, la svolta militare da parte del regime da portato alla distruzione di un numero enorme di scuole, circa quattromila secondo alcune stime, per non parlare del numero di scuole che vengono ora utilizzate come centri d’accoglienza per le famiglie dei rifugiati, e di quelle che non possono essere utilizzate a causa della difficoltà a raggiungerle da parte degli scolari e delle scolare. Anche in località relativamente sicure, come la capitale e dintorni, le famiglie esitano molto a mandare i figli a scuola, per paura che vengano colpite da bombardamenti.
Non è necessario discutere come queste gravi perdite a livello delle istituzioni educative, oltre all’erosione dello Stato e delle sue istituzioni, in primo luogo quelle più delicate, in vaste aree del Paese, dopo il crollo dei meccanismi di controllo del sistema, abbiano creato nuovi problemi nell’ambito dell’insegnamento, con conseguenze negative molto difficili da evitare per la Siria: in primo luogo, la ricostruzione delle infrastrutture scolastiche,  poi il cosiddetto “Divario educativo”, non solo tra le competenze ottenute e quelle effettivamente richieste dal mercato del lavoro, ma anche quello relativo alla giustizia educativa tra i sessi e tra le diverse regioni del Paese, dal momento che in alcune zone, durante gli ultimi due anni, gli scolari non hanno potuto completare alcun grado d’istruzione.
Tuttavia, l’emergere di questi gravi problemi non deve impedire di porre la questione dell’educazione alla cittadinanza, e di considerarla al pari degli altri problemi, posto che i rivoluzionari siano ancora convinti che lo Stato di diritto e i diritti di cittadinanza siano tra gli obiettivi della rivoluzione.
Di recente, sono trapelate delle notizie provenienti dai campi profughi siriani in Turchia, secondo le quali nei campi sono state organizzate delle lezioni per i bambini ospitati nei campi. Pare però che i programmi siriani siano proibiti in queste scuole d’emergenza, mentre le sole due materie che vengono insegnate sono il turco e le materie religiose.
Inoltre, è ormai noto che in alcune zone a maggioranza curda sono state aperte delle classi dove ai bambini vengono impartiti programmi completi, tratti da quelli usati nel Kurdistan iracheno, in lingua curda.
Sui social media passa un’immagine, proveniente dai dintorni di Idlib, dove si vedono degli scolari in una stanza utilizzata come scuola. Su un lato della stanza ci sono degli scolari intenti a leggere, dall’altra parte altri stanno pregando.
Possiamo trovare molti altri esempi che dimostrano una sola cosa, la ricostruzione di una scuola che non prepara i cittadini di un unico Stato, ma i membri di alcune singole componenti religiose e sociali di questo Stato. Tutto ciò significa l’ampliarsi a dismisura dei divari esistenti nella società, e il progressivo ridursi, fino a scomparire, dei diritti di cittadinanza.
La domanda che dobbiamo porci è dunque: dove sta andando la scuola siriana?
Zanzana ringrazia e ricorda con nostalgia il suo professore Hassan Abbas.

Siria – La mamma di Ayham Ghazzoul

Versione originale: السيدة مريم
di Hassan Abbas, tradotto da Zanzana Blog
Pubblicato su Al-Mudun, 10 febbraio 2013
Ayham Ghazzoul, giovane medico e attivista siriano, è morto, in seguito alle torture subite, mentre si trovava in arresto lo scorso anno, sebbene la notizia sia stata resa nota solo ora. Hassan Abbas, docente e ricercatore attivo anche nell’ambito dei diritti umani, ricorda la sua scomparsa dal punto di vista di sua madre e delle persone che gli erano più vicine. 

Ayham Ghazzoul

Ayham Ghazzoul

La signora Maryam, detta anche Umm Ghassan dal nome del suo primogenito, si siede all’ingresso della stanza che ospita il funerale di suo figlio, martire di appena ventisette primavere. La casa, nella quale si è trasferita a causa dei bombardamenti nel quartiere e il crollo di molti edifici, appartiene a suo fratello, esponente dell’opposizione minacciato d’arresto, che aveva già lasciato il Paese. Era il suo figlio minore, giovane medico di dodici anni più giovane del primo figlio. Raccontano che tutta la famiglia, nonostante il passare degli anni, avrebbe desiderato la nascita di una bambina, sulla quale i genitori potessero riversare tutto il loro affetto e che fosse fonte di serenità per i suoi fratelli maschi. Ma i casi della vita non sempre seguono la volontà delle famiglie, ed era arrivato Ayham.
Ciò che colpisce, nelle foto in cui è raffigurato o nei ricordi che si serbano di lui, è come Ayham sorrida sempre. Era come se la tristezza non potesse farsi strada dentro di lui, come se la voce del destino lo avesse avvertito di quanta tristezza avrebbe lasciato nel mondo dopo la sua morte, chiedendogli di compensare mantenendo sempre il sorriso.
Mi aveva fatto visita in occasione dell’uscita di prigione, dopo il suo primo arresto. Le conseguenze della tortura erano ancora molto evidenti nel suo modo di camminare e nella lentezza dei suoi movimenti. Quella volta, il suo sorriso aveva contribuito a contenere la mia ira, la sua serenità mi aveva fatto vergognare della mia irritazione. Il suo amico mi diceva: dopo ottantasei giorni di prigione lo vedi così, come se non vi fosse mai entrato. Io pensavo: “Ecco finalmente colui che confuterà le parole di al-Tha’labi: ‘Quando dio ha plasmato l’essere umano dal fango, ha fatto piovere su di lui quarant’anni di preoccupazione e tristezza, poi un solo anno di gioia e felicità, per questo nella vita c’è più sofferenza che gioia, più tristezza che felicità'”, e mi sono sentito invidioso, non tanto perché fosse difficile negare quel detto, ma per la sua capacità di mantenere il sorriso, e per la sua ostinazione di fronte alla sofferenza. Anelavo a conoscere il segreto di quell’ostinazione, a scoprirne la fonte.
Al momento del funerale, la signora Maryam sedeva simile a una quercia di montagna, le cui foglie appassite vengono spazzate via dal vento, debole mentre i suoi rami vengono squassati dal vento. Uomini e donne, ragazzi e ragazze vanno e vengono, e la signora Maryam li accoglie con un’espressione limpida, silenziosa, paziente, che nasconde un animo addolorato, timoroso di travolgere i presenti con la sua tristezza.
Quale espressione retorica può descrivere il dolore di una madre privata di suo figlio? La lingua non può che risultare imperfetta di fronte alla “Lacrima della mamma più bella, come un fiore tra tutte le mamme”.
Ragazzi e ragazze riempiono la casa, sono venuti qui sperando che la loro presenza possa donare alla mamma del loro amico caduto la forza di sopportare la disgrazia; lei li ha onorati con il suo vigore, elargendo il profumo della sua profonda umanità. Una ragazza, che ha scelto l’impegno civile come via alla rivoluzione, dice: “Avevo bisogno di vederti prima di scendere in piazza. Chi cercava un sorso di forza morale, fermezza, stabilità, prenda per mano la nostra madre, la madre di Ayham”. Sua sorella, attiva nei soccorsi, afferma: “Ci siamo vergognati delle nostre lacrime. La signora Maryam ci ha detto: ‘Dovete completare quello che avete iniziato, non per Ayham ma per voi stessi‘”. Un’altra ragazza ha detto: “Oggi il sorriso di Umm Ayham oggi ha sconfitto la mia frustrazione, risvegliando il mio ottimismo”.
Ecco dov’era nascosto il segreto di quel sorriso perpetuo, era un sorriso ereditato da questa donna, che sa che può scuotere il mondo con la sola mano sinistra, non con la violenza dell’appello all’omicidio o al suicidio, ma grazie alla sua generosa umanità e alla saggezza determinata dal dolore. Il dolore delle mamme, di tutte le mamme siriane che hanno perso i loro figli in una carneficina, nella quale violenze e delitti si susseguono gli uni agli altri.
Ogni giorno vengono pubblicate nuove statistiche che descrivono l’aumento delle perdite umane, statistiche sul numero dei martiri: martiri della rivoluzione da una parte, dell’esercito governativo dall’altra, il numero delle donne e dei bambini uccisi, quello dei dispersi, degli arrestati, dei feriti…Se mettiamo insieme i numeri di tutte queste statistiche, arriviamo a un numero solo: quello delle mamme che soffrono. Forse la crisi si concluderà con la vittoria di una delle parti che combattono, ma in ogni caso chi perderà saranno le mamme siriane, come la signora Maryam.
Zanzana ringrazia e ricorda con nostalgia il suo professore Hassan Abbas.

Apri un Blog, e ricevi Regali

English Version here

Oggi Zanzana, quando è tornata dal Compromesso di Sopravvivenza, ha trovato un regalo: una busta, proveniente dagli Stati Uniti, con dentro “I Graffiti della Rivoluzione”, libro del giovane blogger, giornalista e attivista libanese Hani Na’im, sulla rappresentazione grafica delle primavere arabe attraverso i graffiti nelle strade.

Graffiti della Rivoluzione, la copia di Zanzana

Graffiti della Rivoluzione, la copia di Zanzana

Si tratta del secondo regalo ricevuto grazie a questo blog, il primo è descritto qui. Di certo questo blog non rende denaro, ma procura dei doni preziosi 🙂 Zanzana deve questa piacevole sorpresa alla generosità di Octavia Nasr, giornalista libanese della quale ha tradotto “Maryam: un nome, due storie – prima parte” e “Il 2012 Anno della Donna Araba?” , traduzioni tra l’altro molto apprezzate dall’autrice. Un giorno l’amica Octavia, che ha collaborato con Hani Na’im, ha annunciato sulla sua pagina Facebook la disponibilità di tre copie del libro per i suoi lettori più affezionati: Zanzana si è fatta coraggio, e le ha scritto che le sarebbe piaciuto riceverne una. Octavia le ha risposto che il libro era in arabo…e Zanzana le ha ricordato che ciò non sarebbe stato un grosso problema! Così, dopo qualche settimana, il libro è arrivato, e Zanzana ne è piacevolmente sorpresa ed eternamente grata a Octavia. Sicuramente Zanzana vi parlerà del libro, e del suo autore, che ha un interessante blog qui; per adesso, potete leggere qualcosa sul tema qui. Zanzana si gode il piccolo piacere di sfogliare un libro in arabo, con una dedica scritta per lei, cosa che non capita tutti i giorni a Milano; sarà anche vero che ormai online abbiamo accesso a tutto, e che potremmo comprare libri in qualsiasi lingua ricevendoli comodamente a casa, ma rimane comunque una grossa differenza rispetto a farsi una passeggiata in una libreria di Beirut o di Damasco. Zanzana si chiede con nostalgia se sia ancora aperta una delle librerie in cui andava spesso a Damasco, vicino all’hotel Semiramis, e di cui purtroppo non ricorda il nome.

Aleppo – Università e sogni distrutti

Versione originale: My university – and my dreams – were destroyed in Aleppo
Di Amal Hanano, tradotto da Zanzana Glob

Pubblicato su The National, 22 gennaio 2013

Dall’università italiana a quella siriana, parole toccanti sulla morte di decine di studenti nel recente bombardamento dell’università di Aleppo.

Studenti della Facoltà di Architettura ad Aleppo

Studenti della Facoltà di Architettura ad Aleppo

Il primo giorno di esami è sempre esasperante. Dopo un mese di preparazione, gli studenti varcano la soglia dell’università chiedendosi se sono pronti ad affrontare la sfida. I laboratori pieni di correnti d’aria sono freddi e tranquilli,  i tavoli da disegno perfettamente distanziati. Sei appollaiato su uno sgabello di metallo, al posto che ti è stato assegnato in base a un numero affisso alla porta. Oggi sei un cittadino che porta a termine un incarico ufficiale.

Vengono distribuiti dei libretti in bianco. Scrivi il tuo nome e il numero di matricola nell’angolo in alto a destra e lo richiudi. Un incaricato passa e sigilla l’angolo del foglio, chiudendolo con una graffetta e apponendo una firma, per assicurare una valutazione giusta e anonima (e per scoraggiare chi intendesse corrompere i docenti). Il foglio con le domande viene distribuito subito dopo.

Lavori all’esame continuando a tremare. Quando finisci, aspetti fuori i tuoi amici, forse in cima alle scale, controllando le risposte sul manuale. Magari scendi al bar del primo piano, l’unico spazio decentemente riscaldato dove possano stare gli studenti. Forse pensi di non aver fatto bene, così spingi la porta a vetri a due battenti e vai a casa delusa. Normalmente gli esami vanno così.

Vent’anni fa, ero una di quegli studenti al loro primo giorno di esami, un pomeriggio di gennaio, alla facoltà di Architettura dell’Università di Aleppo. Solo che, a differenza degli studenti del 15 gennaio 2013, dopo l’esame noi eravamo ancora vivi. Per cinque anni, ho fatto avanti e indietro tra casa e l’università, tenendo la riga a T con una mano e uno spesso rotolo di fogli nell’altra. L’imponente edificio d’angolo, dalla forma di una piramide priva della sommità, era la prima facoltà costruita durante l’espansione del campus verso ovest, di fronte all’ultima fila di dormitori. Da quando mi sono laureata, altre facoltà sono state aperte lì vicino, fino a formare un nuovo nucleo universitario.

Ultimamente, i dormitori sono stati occupati da famiglie di profughi, invece che da studenti. L’area sotto il controllo del regime era sempre piena di gente, specialmente i primi giorni d’esame.

Quando studiavo, ricordo che raramente entravamo in contatto con studenti di altre materie, ed evitavamo i ritrovi più in voga. Rimanevamo tra noi, nel nostro umile bar, a discutere di idee, design e futuro. Abbiamo trascorso innumerevoli ore e qualche volta anche la notte (eravamo famosi come i “Nottambuli”) nei laboratori. Era una piccola, affiatata comunità di soli 100 studenti all’anno, non come le migliaia di studenti di altre facoltà, che si laureavano senza aver mai incontrato i compagni di classe.

Quando studi Architettura, impari a collocarti all’interno di un progetto, per comprendere lo spazio che stai creando. Usiamo la stessa tecnica quando guardiamo i video della Rivoluzione siriana. Come ci si sente ad avere la casa distrutta? A perdere tuo figlio? A essere torturati? Martedì scorso, non ho avuto bisogno di immaginarmi la scena: conoscevo quegli spazi come casa mia. Sapevo come ci si sente a stare là, ma non so come ci si senta a essere bombardati nello stesso luogo.

I progetti di architettura sono piani sospesi nel futuro. Fatichi sui disegni tecnici, cercando di creare il piano perfetto, che però sfugge sempre. I nostri migliori docenti ci hanno insegnato che potevamo cambiare il mondo con un edificio, un progetto, un’idea, e noi ci abbiamo creduto. Abbiamo creduto che l’utopia fosse alla nostra portata, dovevamo solo allungare la mano. La mia università, e i miei sogni, sono stati distrutti ad Aleppo.

L'Università di Aleppo sventrata

L’Università di Aleppo sventrata

Purtroppo altre idee si sono rivelate più forti delle nostre. L’idea dell‘intimidazione che si nascondeva negli uffici dei gruppi studenteschi legati al partito Ba’ath, l’idea che convinceva uno studente a spiarne un altro, quella che ti dava per certo che non avresti mai avuto il permesso di costruire o vinto un appalto senza un contatto all’interno del regime o pagando una tangente. Abbiamo imparato a tenere la testa bassa e la bocca chiusa. Queste idee, create per distruggerci, sono divenute realtà concrete, capaci di erodere il nostro piano utopico, offrendo scarse alternative: arrendersi, fare compromessi o andarsene.

Nel 2011, la gente si è resa conto di avere un’altra scelta: ribellarsi. Dopo molti mesi e molto sangue, la Siria rimane un campo di battaglia conteso tra l’oppressione e le idee rivoluzionarie. Accade spesso in questa battaglia che avvengano tragedie delle quali entrambe le parti si accusano: non vi è infatti un unico responsabile, solo aggiornamenti sul numero delle vittime.

Così è stato anche settimana scorsa, quando due esplosioni hanno interrotto la concentrazione degli studenti. Due esplosioni che hanno portato via centinaia di vite, ponendo fine ai piani e ai sogni di futuri architetti, ingegneri, insegnanti, cittadini.

Le madri cercano pezzi dei loro figli tra le macerie. Una trova la scarpa di sua figlia, un’altra il braccio del figlio. I tavoli da disegno, ricoperti di sangue, vengono usati per trasportare i corpi. La facciata di vetro è in frantumi. Vengono diffuse le foto dei morti, studenti giovani e brillanti, che si sentivano nervosi quella mattina, convinti che scorrere il foglio con le domande sarebbe stato il momento più spaventoso della giornata. Erano seduti nei laboratori a scrivere le risposte tenendo su i guanti, e avrebbero aspettato i loro amici alla ringhiera del terzo piano, proprio sopra il mezzanino affacciato all’esterno.

Tutti sanno che eravamo diversi. Eravamo invincibili. Dovevamo cambiare il mondo con le nostre matite e la nostra fantasia. Ci aspettava però una lezione alla quale nessun giovane idealista avrebbe mai creduto: il nostro piano era difettoso. Alla fine, il mondo avrebbe cambiato noi, in un modo che nessuno avrebbe potuto immaginare.

Amal Hanano è lo pseudonimo di una scrittrice siro-americana.