Quando ho visto i segni delle percosse sul volto di mio figlio Abdallah, di ritorno dalla scuola elementare, mi sono spaventata molto. Mi ha raccontato che dei bambini più grandi l’avevano picchiato quando hanno saputo che era “Il figlio di Manal al-Sharif, quella che ha guidato la macchina“. Aveva cinque anni all’epoca, e balbettava cercando di spiegare cos’era successo: “Un bambino ha detto Ho visto tua madre su Facebook, tu e tua mamma dovete andare in prigione“. Ricordo ancora come, per la prima volta, non riuscivo a confortare mio figlio, perché il mio spavento era ancora più grande…Come può un bambino di cinque anni capire la parola “Prigione”, e come potevo spiegargli una cosa ben più grande dei suoi cinque anni? Come è possibile che dei bambini in tenera età portino il fardello dell’odio che affligge i grandi? Mi sono inginocchiata, l’ho guardato negli occhi, pieni di domande, l’ho abbracciato e siamo rimasti a lungo così, in silenzio.
Dopo averlo messo a letto quella notte, non sono riuscita a dormire a causa delle lacrime: quell’avvenimento mi aveva resa ancora più decisa di prima, più del tempo che avevo trascorso a cercare di completare quello che avevo iniziato, a raccogliere resoconti e articoli di giornale che parlavano di me, bene o male, a registrare tutto ciò che mi era successo o mi accadeva in un libro, che potesse costituire in futuro una testimonianza di questo periodo, e che diventasse il suo libro, il libro di Abdallah e di tutti quei bambini che sarebbero diventati uomini e donne fra qualche anno. Mi auguravo in quel momento che sarebbero diventati uomini veri, capaci di dimostrare riconoscenza per chi li aveva generati, per le loro mogli e le loro figlie, e che le donne sarebbero state consapevoli dei loro diritti e dei loro doveri, tanto da non tollerare in alcun modo di vederli umiliati o infranti.
Il tre maggio di quest’anno erano ormai passati due anni da quando ho dato lanciato la campagna “Le donne hanno diritto a guidare” insieme a Bahiyya al-Mansour (studentessa di Legge Islamica, nipote della regista saudita Haifa al-Mansour, e della pittrice Hind al-Mansour). La richiesta che ho presentato il 15 novembre 2011 contro la Direzione Generale dei Trasporti, in opposizione alla decisione di non concedermi la patente, è stata accettata con molto ritardo dal Direttore dell’Ufficio reclami; la motivazione addotta per questo ritardo è stato l’emergere di una questione complicata, che aveva impedito di considerare quella della patente alle donne, senza però che mi venissero comunicati ulteriori dettagli. L’attacco da parte dei miei detrattori nei confronti della consapevolezza e dell’autonomia della donna è stato particolarmente doloroso, e ha colpito in profondità me come qualsiasi altra donna saudita in cerca dei propri diritti. Inoltre, hanno continuato a scorrere notizie tendenziose riguardanti Manal al Sharif, come quella che fosse un’agente iraniana, che fosse arruolata nell’organizzazione serba “Kanfas”, poi che fosse sostenuta da Israele, e addirittura che fosse sciita, nata presso Suwarqiyya – culla dell’oro, mentre io sono nata a Mecca, da una famiglia che segue la dottrina Sciafi’ta da secoli (con tutta la mia stima per i fratelli sciiti, con i quali dividiamo il nostro diletto Paese). Mi hanno poi attribuito un Tweet nel quale descrivevo i membri della Commissione come “Miscredenti”, hanno detto che sono stata convocata presso la Casa dell’Obbedienza, e uno di loro ha perfino pubblicato un video, che si è diffuso a macchia d’olio, nel quale venivo accusata di aver rapito e messo in pericolo sua figlia Husayniyya! Per finire con le notizie che annunciavano la mia morte in un incidente stradale, del quale hanno parlato i giornali di tutto il mondo.
Nonostante tutto ciò, le cattive notizie cattive mi hanno lasciato un po’ di energia per contribuire a creare delle buone notizie, che possa raccontare ai miei nipoti, se la vita me lo consentirà.
La campagna per permettere di guidare alle donne si è trasformata in una campagna più grande e più generale, sotto il nome de “I miei diritti e la mia dignità”, che lotta affinché le donne saudite possano acquisire diritti di cittadinanza completi, affinché la donna sappia che la piena capacità giuridica non ha bisogno delle direttive di un uomo, nonostante le leggi che continuano a sottrarle questo diritto naturale, affinché le prossime generazioni sappiano che quelle passate non si sono arrese alle lacrime e al disfattismo.
Se le donne della famiglia mi chiedono: “Non hai intenzione di fermarti per tuo figlio Abdallah?” rispondo loro: “Non mi fermerò finché non avrò scritto un lieto fine al libro che dedicherò ad Abdallah e alle vostre nipoti“.