Versione originale: قصة مريَمين
English Version here: A Tale of Two Maryam’s
di Octavia Nasr, tradotto da Zanzana Glob
Pubblicato su An-Nahar, 22 gennaio 2013
Avete mai pensato seriamente a che cosa vuol dire uscire dal proprio Paese e non potervi mai più rientrare, oltre a non poter rivedere la propria famiglia, rimasta dall’altro lato del confine? La giornalista libanese Octavia Nasr ce lo racconta, attraverso la storia di due donne, entrambe di nome Maryam, vissute tra Libano e Palestina. Zanzana Glob traduce qui la prima storia, a breve la seconda.
La storia che sto per raccontarvi è ambientata in Palestina, al tempo del mandato britannico, quando frontiere approssimative dividevano questa regione dal Libano, dalla Siria, dalla Giordania orientale e dall’Egitto. A quel tempo la vita era semplice, e le decisioni avevano un’impronta di breve periodo, sebbene comportassero delle conseguenze che duravano tutta la vita. Tutti i racconti tramandati di generazione in generazione parlavano di progetti di carattere elementare, che duravano settimane, al massimo qualche mese, di certo non anni o secoli, per non parlare di una vita intera, fino ad arrivare alle generazioni future. In quel lontano passato, di certo nessuno poteva immaginare, neanche nel più ardito dei sogni, i profondi sconvolgimenti che la vita aveva in serbo.
Una ragazza di nome Maryam, originaria del villaggio di Rmeish (Libano meridionale), si innamorò di un giovane onesto e lavoratore, di Kafr Bir’em, un villaggio vicino, nella Palestina settentrionale. Si sposarono e, nel 1946, ebbero due gemelli. La vita li pose di fronte alla prima sfida nel 1948, dopo la proclamazione ufficiale dello Stato di Israele e la chiusura di tutte le frontiere con i Paesi vicini. Maryam si trovava in visita con i bambini alla sua famiglia in Libano, e affrontò il pericolo della separazione da suo marito per un periodo che “Dio solo sa quanto sarebbe potuto durare”. Così suo suocero attraversò le campagne a dorso d’asino diretto verso il Libano, per recuperare Maryam e i bambini e tornare con loro in Palestina. La madre di Maryam, in preda all’angoscia per il fatto di dover mandare sua figlia incontro all’ignoto da sola, chiese all’altra sua figlia nubile, Nazira, di accompagnarla, per aiutarla e per restare con lei nell’attesa che la famiglia allargata si potesse riunire.
In quel momento, due donne libanesi entrarono in Israele, e non rividero mai più la loro famiglia o ebbero la possibilità di rimettere piede in Libano. Inoltre, il villaggio di Kafr Bir’em fu completamente distrutto dall’esercito israeliano, che espulse tutti gli abitanti cristiani. Dopo quarant’anni, gli abitanti di Kafr Bir’em continuano a lottare per il diritto al ritorno presso il loro villaggio e per la sua ricostruzione. Israele continua ad avere l’ultima parola per concedere i permessi per i funerali o per le visite alle rovine del villaggio. La chiesa è l’unico edificio ancora in piedi, testimone di una vita che esisteva tanto tempo fa, e che potrebbe non tornare mai più, cosa che vale anche per gli abitanti del villaggio.
La storia continua, e vede Maryam e Nazira diventare cittadine israeliane a tutti gli effetti, come anche i loro mariti palestinesi, che scelsero di rimanere presso la madrepatria. Le famiglie di Maryam e Nazira crebbero, e divennero parte di una nuova vita che non avrebbero mai pensato di avere, ma che non avevano neanche immaginato, desiderato o voluto. Le due donne accettarono però questa nuova condizione. Divennero arabe israeliane ma non dimenticarono, né permisero a nessuno di farlo, da dove venivano, e qual era il Paese che portavano nel cuore. A causa della nazionalità israeliana, Maryam e sua sorella non poterono mai tornare in Libano a visitare la loro famiglia. Una volta, in seguito alla Guerra dei Sei Giorni, poterono salutare i parenti con la mano ed entrare in contatto grazie agli altoparlanti attraverso il confine giordano. Tuttavia, l’esperienza, assai dura e dolorosa al punto da lasciare una traccia profonda in chi l’aveva vissuta, non venne ripetuta.
Così Maryam e Nazira vissero per i loro figli e, giorno dopo giorno, anno dopo anno, vissero un’intera esistenza lontano da casa e dalla famiglia. Sono palestinesi? No di certo. Arabe? Nemmeno. Israeliane? Certo che no. Sono due sorelle libanesi di Rmeish, sradicate e scagliate nel turbine della vita, che sono riuscite a restare in piedi, trovando delle nuove radici e costruendo delle famiglie forti. Hanno accettato il loro destino, tentando di volgerlo al meglio. Due libanesi orgogliose, che hanno seguito le notizie in arrivo dal loro Paese, aspettando sempre con ansia di sapere qualcosa dei loro cari. Hanno continuato a desiderare di vedere il giorno in cui sarebbero potute rientrare in Libano, magari anche solo per una visita.
I loro genitori sono morti, fratelli e sorelle sono cresciuti, ma il sogno di rivedere il Libano non si è mai realizzato. Maryam è morta nel 1996, Nazira l’ha seguita dopo qualche anno. La loro storia non è mai stata narrata, e la gente non ci farebbe caso, ma rimane custodita nell’animo dei loro cari, dei familiari e dei vicini, degli amici, dei figli e dei nipoti che furono toccati dal loro grande affetto e dedizione, da entrambi i lati del confine.
La storia di Maryam può costituire una lezione per tutti i libanesi, soprattutto quelli che credono che il loro Paese sia intoccabile, e che rimarrà sempre tale e quale per loro. Quelli che vivono il patriottismo come una sorta di eredità, o che l’hanno ottenuto come ricompensa, senza aver mai realizzato nulla. Mi auguro che la storia di Maryam possa costituire un appello per coloro che non sanno cosa vuol dire essere derubati della propria cittadinanza, a cui non è stata sottratta la madrepatria, che non hanno provato ogni notte l’amarezza di sognare la tua famiglia, che si trova a un tiro di schioppo da te ma con la quale non ti potrai riunire. Quanto agli altri, attraverso la lode di una grande donna libanese di nome Maryam, è necessario che questa storia ricordi loro le contese ancora irrisolte e ciò che veramente conta nelle nostre vite.